L’IMPREVISTO

di Viviana Guarini

A lei non piaceva viaggiare.
Non le piacevano le code al casello autostradale. Non le piaceva il traffico. Non le piacevano gli aerei e neanche le navi. I treni, quelli sì forse un po’ le piacevano.
Non le piaceva l’idea di dover trascorrere le tante bramate ferie nel caos a tutti i costi, sulla musica delle hit estive a ballare sempre e comunque, a fingere la felicità.
Non le piaceva l’idea di allontanarsi troppo da casa, dal suo covo sicuro. Perché a lei piaceva molto, forse troppo, quel covo sicuro.
Agli occhi della gente sembrava strana. «Dovrai superare questa paura prima o poi», le dicevano.
Paura. Aveva forse paura?
Forse.
Eppure in giovanissima età lo aveva girato e rigirato come un calzino quel pazzo mondo.
Ad un certo punto: crack. Qualcosa si era rotto.
Quanto le piaceva da bambina fare le valige. Lo adorava.
Il giorno prima della gita restava sveglia tutta la notte a causa dell’adrenalina.
Anche adesso, se le capitava di dover fare più di 40 chilometri, restava sveglia tutta la notte. A causa dell’ansia però.
L’ansia da prestazione.
“Cosa penseranno gli altri?”, si domandava spesso.
Ma cosa desiderava davvero lei: questo non se lo chiedeva quasi mai.
La paura ci impedisce di fare spesso cose che desidereremmo fare nel profondo,
ma lei non desiderava viaggiare. O almeno di questo si era convinta. Eppure era estroversa, creativa, innamorata del mondo.
E allora perché doveva vincere a tutti i costi questa “strana paura” come amavano chiamarla gli altri.
Perché?
Davvero è così indispensabile visitare l’America?
Non poteva forse trascorrere la sua vita sull’amaca nel suo giardino, leggendo libri e sognando l’amore?
Appena arrivava Luglio ecco che tutte queste domande tornavano a fare capolino, tra le mille scuse inventate davanti ai suoi amici, ad ogni suo rifiuto.
In quel caldo Luglio, però, arrivò un imprevisto.
Lo soprannominò da subito così lei, quel ragazzo dai capelli lunghi e bruni. “L’imprevisto”.
Come quelle carte del gioco del Monopoli che ti costringono a ripartire dal via.
Si chiamava Alessandro. Mamma siciliana e papà di origini greche, aveva la carnagione scura e gli occhi neri ma delicati. Le braccia forti e dei baffi neri e folti.
Lo vide per la prima volta durante una delle sue lunghe passeggiate vista tramonto. Lo incontrò durante un pigro martedì pomeriggio, mentre era assorta tra i pensieri con i suoi fedeli auricolari che trasmettevano la sua canzone preferita.
Lui era seduto su di una panchina, parlava ad alta voce e gesticolava, cercando di far ragionare qualcuno dall’altra parte del telefono.
«Ti ho già spiegato che se non lo assumiamo regolarmente io esco dalla società domani stesso. Non ho alcuna intenzione di far lavorare quel ragazzo, otto ore al giorno a nero soltanto perché tu, a fine anno, vuoi concederti una vacanza in più».
Francesca rimase stupita da quelle parole che aveva udito con la coda dell’orecchio, mentre passeggiava proprio davanti a quella panchina. Si fermò poco più avanti, a distanza di sicurezza: non troppo vicina per non risultare invadente, né troppo lontana, affinché potesse continuare ad origliare quella conversazione che aveva attirato la sua attenzione. «Ismael ha già dovuto pagare cara la sua vita, è un ragazzo in gamba con tanta voglia di mettersi in gioco. Non deve supplicare di essere regolarizzato: è un suo diritto. Hai 24 ore per pensarci, dopo di che avvierò la procedura per lasciare le azioni della società».
Francesca, seduta di spalle sul muretto che si affacciava sul tramonto più bello di Bari, aveva abbassato totalmente la musica, attirata com’era da quella conversazione e da quel ragazzo.
Ad un certo punto si sentì toccare una spalla. «Scusami, hai un accendino per favore?».
I loro sguardi si incrociarono per un tempo che gli sembrò infinito. «Sì, certo, un attimo lo cerco nella borsa». «Ah, la fatidica borsa delle donne. Mi metto comodo allora, potrebbero volerci delle ore».
Scoppiarono a ridere, mentre il ragazzo dagli occhi neri pece si sedette accanto a lei. «Piacere, mi chiamo Alessandro». «Piacere mio, Francesca».
Si strinsero la mano, mentre con l’altra Francesca continuava a frugare, senza successo, nella sua borsa alla ricerca dell’accendino.
«Abiti in questo quartiere?» le domandò Alessandro. «Sì, da circa un anno e ne sono totalmente innamorata. Questo è un quartiere magico e soprattutto ha il tramonto più bello del mondo. Tu? Non ti ho mai visto in giro prima di oggi». «In realtà oggi è il mio primo giorno da residente qui. Ho terminato questa notte il trasloco. Ho preso in affitto un bilocale in via Tripoli». «Ma dai? A 200 metri da casa mia!» e le sue guance andarono a fuoco. «Spero che in casa tua tu abbia gli accendini legati a qualche corda, altrimenti suppongo tu possa arrivare ad impiegarci anche due giorni per trovarne uno».
Scoppiarono nuovamente a ridere, mentre il cuore di Francesca era ormai totalmente fuori controllo. «Ti va un gelato?» domandò improvvisamente Alessandro.
Francesca rimase in silenzio per qualche secondo. Non era più abituata alla spontaneità e agli uomini che avevano il coraggio di osare. Era piuttosto ormai abituata a quelli che si nascondevano dietro la tastiera di un social network per invitarla a bere qualcosa assieme. Non era più abituata al cuore che batte senza comprenderne bene il perché. Fuori tempo, fuori posto, fuori controllo.
«Sì, certo» si limitò a rispondere.
Trascorsero la serata insieme, dal gelato erano poi passati all’aperitivo e poi alla pizza con birra consumati, come adolescenti, su quello stesso muretto su cui si erano conosciuti. Parlarono di tutto, come se si conoscessero da sempre.
Alessandro gli raccontò del suo lavoro. Era un imprenditore agricolo e da qualche tempo si stava occupando della lotta al caporalato. Una lotta, che prima di tutto, portava avanti con gli stessi soci della sua società.
«Sai quando il male diventa un vizio quotidiano, alcuni smettono di accorgersi della sua gravità. Io, però, non cedo al compromesso. Sono disposto a perdere tutto, anche la mia impresa in cui ho investito tanto, se i diritti di ogni singola persona che collabora con noi non vengono rispettati. Purtroppo in questo pazzo mondo ci hanno educato che alcune vite possano valere di meno. Questo non è vero, mai».
Dopo quelle parole, Francesca, senza chiedere il permesso, senza neanche chiedersi se fosse giusto, senza neanche sapere se Alessandro avesse il cuore libero oppure no, lo baciò. Di fretta, come se non ci fosse tempo. Come se fosse urgente. E lo era.
Si baciarono per dei minuti che sembrarono infiniti, come due ragazzini al loro primo bacio. «A cosa devo questo onore?» chiese Alessandro dopo quel bacio interminabile. «Ho un debole spassionato per i ribelli, per chi onora la vita e lo fa ogni giorno, per chi prende per mano gli ultimi» e sorrisero, e si baciarono, di nuovo.
«Ti va di partire in Grecia con me questa notte?».
Le domandò Alessandro.
Francesca restò sorpresa. Presto, però, la sua sorpresa si trasformò in terrore. «Io non amo viaggiare», rispose abbassando lo sguardo. «Tutti amano viaggiare!» rispose sorridendo dolcemente Alessandro. «Sì, forse, non so. Io, però, ne ho paura. Ho paura di viaggiare, di andare via dal mio covo sicuro. Con uno sconosciuto poi, sarebbe impossibile per me!». «Hai ragione, ci conosciamo da cinque ore. Che vita sarebbe però senza il coraggio di osare mai? Facciamo così. Stanotte partiamo ma facciamo un compromesso: in qualsiasi momento, durante il viaggio, tu sentirai il bisogno di tornare a casa, prenderemo il primo mezzo possibile e torneremo a casa. Non so perché tu abbia paura, ma te lo si legge negli occhi. Concedimi la possibilità di mostrarti che a volte, la paura, ha soltanto bisogno di sessanta secondi di fottuto coraggio. A volte, un imprevisto che non pensavamo possibile, può darci quella spinta di cui non sapevamo neanche di aver bisogno». «Va bene “imprevisto”, però, in aereo, tienimi la mano».
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Non ci è dato sapere quale sarà il futuro di Alessandro e Francesca. Quel che sappiamo però è che, ogni giorno, da dieci anni circa, c’è un ragazzo dagli occhi nero pece che tiene per mano una ragazza dalle mani esili e i capelli biondo oro. E si baciano, ogni volta, come se fosse la prima volta, davanti al tramonto più bello di Bari.
Perché il tramonto, proprio come l’amore, è sempre lì a ricordarci tutto ciò per cui vale la pena vivere.

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